Chi pensa che la musica d'arte sia fine a sé stessa non sa che il pensiero musicale è intrinsecamente un ponte lanciato su ciò che è altro: l'arte dei suoni è già di per sé uno specchio simbolico, poiché la natura della musica è metalinguistica... Dante nel Convivio scriveva che la musica è "tutta relativa". Siamo all'assoluto opposto dell'autoreferenzialità. Secondo me già in questo c'è la felice verità di cui ogni ascoltatore attento e appassionato, musicista o no, si fa custode: nessuna musica, ascoltata anche solo segretamente, può mai morire. Al massimo ci possono essere autori poco conosciuti, ma questa è la sostanza della nostra volontà di darne notizia, perché ci sentiamo interpellati dai loro messaggi segreti e vogliamo gustarne insieme le domande e le risposte esistenziali.
La (ri)scoperta della musica d'arte comincia prima di tuffarsi nell'ascolto, così come ogni composizione è l'eco di qualcosa che già era accaduto, che già c'era. Per questo chi non sa ascoltare la musica d'arte ha bisogno prima di tutto di ascoltare storie, passate o presenti, di persone che spandono bagliori di vita nella ricerca del suono e ne sono arricchite e rinnovate continuamente. Sono vite in cui la ricerca del suono coincide con la ricerca di senso; molto spesso, vite di maestri che, nel fare esercizio del linguaggio dei suoni insieme ai propri allievi, scoprono vie per fare arte. Oggi vorrei presentarvi un autore che ha operato proprio in questa direzione. Si tratta di un insegnante e compositore che nacque nel 1921 a Tolosa e morì nel 2011 a Parigi.
Marcel Bitsch studiò Composizione al Conservatorio di Parigi con Jean Gallon, Noël Gallon and Henri Büsser. Dopo il diploma, conseguì il prestigioso Prix de Rome e divenne maestro nello stesso Conservatorio in cui aveva studiato. Insegnò Contrappunto e Fuga dal 1956 al 1988.
Compositore di talento, ha scritto molte opere orchestrali, tra cui tre concerti per pianoforte, opere cameristiche e numerosi studi e brani per strumenti a fiato. È l'autore di importanti trattati come Précis d'harmonie tonale (Leduc), Traité de contrepoint (Durand) e La fugue (Combre). Le sue edizioni analitiche di composizioni di Bach si distinguono per originalità e valore didattico nell'evidenziare le caratteristiche strutturali.
La sua composizione più eseguita è senza dubbio il bellissimo Concertino per fagotto e orchestra (1948), scritto anche in una altrettanto riuscita versione per fagotto e pianoforte che è la più frequente nel contesto di concerti per duo fagotto/pianoforte o per concorsi fagottistici.
Già nel leggere la partitura e nell'assaporare la struttura bipartita (Andante - Allegro vivace) sono rimasta colpita dalla profondità espressiva con cui l'autore dà una voce contemporanea al paradosso, di derivazione romantica, del "doppio", del contrasto, dell'antinomia.
L'Andante iniziale ci immette da subito in una scena crepuscolare intrisa di languore e drammaticamente sospesa tra domande irrisolte, cristallizzate nell'aria. Il timbro del fagotto, nella sua veste scura e malinconica, ci trasporta da subito in una passeggiata immaginaria tra le vie di Parigi, che a tratti si anima, finché l'atmosfera si rompe con un grido.
Sembra che l'autore voglia gridare: "Perché? Perché questo dolore?" – potenza del metalinguaggio – ...e così il fagotto, da solo, fa seguito a quel grido, sviluppando una cadenza in cui pensa, pensa troppo, complica le cose, sussulta, si appiglia alle sue certezze e si sospende su un trillo finale.
Il pianoforte subentra su quel trillo dando inizio all'Allegro vivace. Ed è ironia metafisica, in un dialogo serrato che brilla di motti di spirito e genera atmosfere elettriche e frizzanti. Metafisica perché non si sa da dove provenga, come l'ironia noumenica, alla Jean Paul, tanto cara a Schumann.
Il linguaggio musicale di Marcel Bitsch si fonda sull'eredità romantica e postromantica, unita alla solidissima conoscenza del contrappunto, all'amore per i tesori bachiani e alla stima per le tendenze neoclassiche degli anni Venti e Trenta del Novecento (attestata da Bitsch nella sua preziosa Suite française per oboe e pianoforte, su temi del Seicento, assonante al pensiero creativo dello Stravinsky della Suite italienne); si fonda su tutto questo ma non si ferma qui perché è originale, sia a livello strutturale che di tavolozze sonore impiegate: la tonalità, nel suo pensiero musicale, ha l'elasticità di un contorsionista.
Vorrei offrire anche un'altra proposta di ascolto per chi ha il tempo e il desiderio di un bis: il Concertino per pianoforte e orchestra da camera (1953). L'ironia sprezzante e spensierata dell'Allegro iniziale lascia il posto a un Andante che si apre come uno squarcio di cielo, tenero e malinconico, cantato dai fiati e sognato dal pianoforte. Il terzo tempo è un Presto molto variegato ed eterogeneo, che sintetizza i due movimenti precedenti.
Spero che questo invito all'ascolto abbia tratteggiato la sensibilità di questo autore, che secondo me, in breve, si nutre di un grande gusto del suono unito a una ricerca di energia e di senso per tracciare peregrinazioni dell'anima che, come scopriamo alla fine, non accadono invano.
Caterina Barontini