Alfano, Respighi, Pizzetti, Malipiero e Casella: questi sono i compositori italiani identificati da storici e musicologi come “generazione dell’Ottanta” in base ai loro anni di nascita (intorno al 1880). Sarebbe bello se le denominazioni in certi casi potessero fare la muta come la pelle dei pitoni… “generazione della svolta” ad esempio non sarebbe per niente eccessiva. In più darebbe ai musicisti e agli appassionati di musica dei segnali importanti in direzione del futuro, oltre che una scintilla di curiosità e di entusiasmo ai compositori che si sentono chiamati a loro volta a rinnovare e cambiare le cose. È bello scoprire che esistono autori, lontani da noi soltanto di un secolo, che hanno vissuto di un intento comune e appassionato e sono riusciti a farlo vivere come fenomeno artistico, non soltanto come istanza intellettuale, come era avvenuto nel gruppo a loro precedente (Martucci, Sgambati, Bossi e Sinigaglia), composto da autori che non ricordiamo nemmeno più. Questi ultimi non sono passati alla storia perché si proponevano solo di “restituire all’Italia una musica strumentale” con l’orizzonte impostato su Beethoven, Mendelssohn, Wagner e Brahms: modelli stranieri del passato. La generazione dell’Ottanta invece guarda all’avvenire.
La svolta culturale e artistica portata a compimento da Alfano, Respighi, Pizzetti, Malipiero e Casella è memorabile perché è stata in grado di portare nuova musica strumentale italiana nei teatri e nelle sale da concerto. All’inizio del Novecento un fenomeno analogo di rinnovamento musicale stava avvenendo anche negli altri paesi d’Europa, ma realizzarlo in Italia comportava un’operazione più ardua perché significava emancipare la musica strumentale dall’egemonia operistica, come osserva Massimo Mila nella sua magistrale Breve storia della musica (Einaudi, Torino 1963). Mi piace ricordare Massimo Mila, critico musicale insostituibile per levatura culturale e intellettuale, e inquadrarlo con pochi tratti: la sua attività di professore di Storia della musica al Conservatorio e all’Università di Torino; la sua amicizia dai tempi del liceo con Cesare Pavese, Leone Ginzburg e Norberto Bobbio; la sua prigionia per antifascismo, durante la quale tradusse Le affinità elettive di Goethe.
Anche se l’entusiasmo della ricerca e la lotta per il rinnovamento del gusto musicale italiano sono elementi comuni alla generazione della svolta, ognuno di questi cinque compositori ha intrapreso una strada originale e ben delineata, distinta.
Talvolta lo stile si muove sulle tracce del Neoclassicismo di Stravinskij e delle avanguardie musicali europee (Casella); talvolta rielabora tesori della spiritualità medievale oppure capolavori vocali e strumentali del Sei-Settecento italiano (Respighi); in altri casi, come nella scrittura di Busoni, si avvicina alla corrente di area tedesca della Nuova oggettività, sulla falsariga di Hindemith e Weill. Tutto questo sempre con consapevolezza di cosa significa creare “musica moderna”, sia a livello filosofico sia a livello di tecniche di scrittura, che mettono in luce il fascino provato dai cinque autori per la sensibilità orchestrale di Debussy, Ravel, Strauss, Puccini, Bruckner e Mahler.
Ottorino Respighi
Ottorino Respighi (Bologna, 1879 - Roma, 1936) si formò al Conservatorio di Bologna, studiando Composizione (sotto la guida di Martucci), Violino, Viola e Pianoforte.
Raggiunse una solida fama nel repertorio internazionale specialmente con i tre poemi sinfonici ispirati a Roma: Fontane di Roma (1916), Pini di Roma (1924) e Feste romane (1928).
Queste partiture sono caratterizzate da luminose tavolozze orchestrali, esaltate dai sapienti impasti timbrici ed effetti coloristici. Lo studio dell’orchestrazione era avvenuto tra il 1900 e il 1909 in circostanze che seppe cogliere con estrema prontezza: quando fu chiamato a suonare come prima viola al Teatro Imperiale di San Pietroburgo studiò con Rimskij-Korsakov; quando nel 1908 a Berlino divenne pianista accompagnatore della classe di canto del soprano ungherese Gerster studiò con Bruch. Nell’anno berlinese conobbe Busoni e la musica di Strauss e maturò la convinzione di dedicarsi interamente alla composizione.
Dal 1913 fissò la sua residenza a Roma, dove diede vita a una fiorente scuola di Composizione al Conservatorio di Santa Cecilia, del quale fu direttore dal 1924 al 1926.
Il valore della trilogia romana di Respighi sta nel fatto che la scrittura conserva la ricchezza espressiva proveniente dalla letteratura musicale di Liszt, Strauss e dei sinfonisti russi, ma senza che ci sia altro in comune con il genere ottocentesco dei poemi sinfonici: non c’è la concezione del flusso orchestrale come un unico movimento, in cui il discorso musicale è sviluppato a partire da un pensiero filosofico, un personaggio illustre o un’opera letteraria. La novità dei suoi poemi sinfonici sta nell’intento di evocare immagini emblematiche del mondo reale: paesaggi, monumenti, spettacoli della natura o di una tradizione culturale.
La chiave di lettura che ci permette di gustare appieno le composizioni di Respighi è considerare la sua visione della musica, che mira a stabilire legami con il passato in chiave moderna, mediante il rinnovamento dell’antico.
Per questo, nel quadro II dei Pini di Roma l’Autore utilizza il Gloria della Messa degli Angeli insieme ad altri elementi salmodici e incisi di ispirazione gregoriana, trattandoli liberamente e intrecciandoli a vicenda. Il recupero delle radici medievali dà un respiro europeo alla musica italiana e fonde la dimensione spirituale del canto gregoriano con le esigenze espressive della modernità.
Anche in altre composizioni sono evidenti elementi tratti da melodie medievali, con richiami diretti al canto gregoriano, in particolare nel Concerto gregoriano, nel Quartetto dorico, nel Concerto misolidio e nei tre Preludi per pianoforte.
Nel 1919, dopo il matrimonio con Elsa, sua allieva e studiosa di canto gregoriano, approfondisce lo studio del Graduale Romano. Spesso chiedeva ad Elsa di intonargli una salmodia, “che appagava il suo spirito con un senso di religiosità perfettamente intonato alla sua vita matrimoniale”, come ci racconta l’amico e librettista Claudio Guastalla.
Il Concerto gregoriano per violino e orchestra fu composto nell’agosto 1921 (prima esecuzione a Roma, Augusteo, 5 febbraio 1922). I suoi tre movimenti si basano su temi gregoriani autentici o ispirati, ripresentati più volte con variazioni e rielaborazioni.
L’Andante tranquillo prende forma da due motivi ariosi, originali di Respighi, che evocano melismi medievali. Dal piano iniziale si procede in un crescendo continuo che conduce alla cadenza del violino.
Il secondo tempo, Andante espressivo e sostenuto, prende inizio proprio sulla conclusione della cadenza ed è composto sulla sequenza Victimae paschali laudes. Il tema è ripetuto dall’orchestra con variazioni, trasposizioni, arricchimenti armonici e rielaborazioni timbriche, mentre il solista ricama elementi rapsodici che sembrano esprimere l’esaltazione e il pathos spirituale che cresce nella preghiera corale.
Il terzo tempo, Finale (Alleluia). Allegro energico, è una parafrasi sull’Alleluia del Salmo 112 Beatus vir.
Per sintetizzare la visione di Respighi vorrei citare dei passaggi a lui dedicati dall’amico Casella nella sua autobiografia I segreti della giara (1941):
Io ritengo che occorra innanzitutto non dimenticare che il suo punto di partenza fu quello medesimo di tutta la nostra generazione (…) Per reagire contro il verismo, l’unica via possibile era quella di appoggiarsi sulle avanguardie europee nate dall’impressionismo. (…) Ma vi erano in lui due nature: una sensibilità sinceramente orientata verso il modernismo e specialmente verso la novità degli impasti timbrici (…) e una seconda natura che lo portò ad adagiarsi comodamente sulle posizioni del successo, impedendogli di superare l’impressionismo franco-russo (…) che rimase sempre la base della sua arte.
In conclusione, un rinnovamento dell’architettura sonora non fu perseguito da Respighi in senso neoclassico, ma nell’ottica di una relazione viva con le radici spirituali della tradizione musicale, forse presagendo che la crisi della spiritualità avrebbe addensato la sua ombra sull’etica e sull’estetica contemporanee.
Caterina Barontini